Stefano Ferri: 'L'inevitabilità di essere se stessi'
Lo scrittore Stefano Ferri racconta la sua esperienza, non senza difficoltà, di crossdresser, e presenta il suo nuovo libro con la quale svela anche i segreti del risotto allo zafferano
Fuori dagli schemi, sempre con gentilezza ed educazione, anche quando deve scontrarsi con luoghi comuni duri a essere sfatati. Così, in pochissime parole, si può definire il giornalista e scrittore Stefano Ferri di cui, dopo “Crossdresser. Stefano e Stefania, le due parti di me” del 2021, a fine settembre è uscito in libreria il nuovo libro “Due vite una ricompensa” (Ugo Mursia Editore) e che si racconta dell'intervista pubblicata sul numero di ottobre della rivista Gioco News.
Com’è cambiata la sua vita personale e professionale in questi tre anni?
"Radicalmente. Il mio memoir era figlio del lockdown e della sua alienazione, che per me – all’epoca attivo nel turismo e negli eventi, due comparti flagellati dalla pandemia – significò la perdita di gran parte del lavoro e la necessità di reinventarmi. Proprio da quel drammatico tempo libero, senza garanzie né stipendio, derivò l’impulso a scrivere di me stesso. Poi si sa, da cosa nasce cosa e piano piano mi si sono aperti nuovi orizzonti, peraltro assai più in linea con l’uomo che oggi sono. Davvero niente avviene per caso. Ora mi occupo di formazione D&I per aziende, qualcosa che prima del Covid non esisteva e che proprio grazie (uso questo termine non alla leggera) a quella tragedia collettiva ha trovato terreno fertile, nelle riflessioni dei singoli prima e in una meravigliosa concretizzazione poi. Il mondo, quantomeno quello occidentale, è rinato migliore, con una spiccata e generalizzata sensibilità verso l’inclusione, e io sono orgoglioso di dare il mio contributo, per quanto posso.”
Da dove nasce l'ispirazione per questo nuovo libro e come vi affronta il tema della diversità?
“Nasce da un lontanissimo pranzo di primavera, aprile 1981. Facevo la quarta ginnasio e mi trovavo in Brianza con la mia famiglia e i miei zii a mangiare il risotto. Chiacchierando, mio zio – milanese purosangue – mi disse che, al contrario di quanto pensavo (e pensano in tantissimi), non è lo zafferano a dare al risotto giallo il suo inconfondibile sapore, bensì il vero ingrediente-base, incolore e invisibile, il midollo spinale del bue. La cosa mi sorprese al punto che dovetti farmela ripetere. E fu lì che mi colpì la domanda che poi non mi ha più mollato per decenni: a chi può essere venuta per primo l’idea di mangiare una cosa in teoria così ributtante e perché? Avevo in casa una Storia di Milano enciclopedica. A tempo perso la consultavo, cercavo notizie e ovviamente non ne trovavo. L’unico punto fermo è la vicenda come la sanno tutti, ossia che l’8 settembre 1574, esattamente 450 anni fa, al pranzo di nozze della figlia di uno degli impresari del cantiere del Duomo di Milano, uno dei di lui artisti, chiamato 'zafferano' perché con quella spezia dipingeva, decise di vendicarsi della sposa, di cui s’era innamorato, 'sporcando' il risotto appunto di zafferano. E così avviò la leggenda non solo di questa pietanza, che evidentemente attendeva solo l’appuntamento con lo zafferano per completarsi, ma proprio del riso in sé, che da allora fu sdoganato come piatto prelibato e non più popolare, raggiunse le tavole dei nobili e iniziò, con le più svariate ricette, ad affermarsi ovunque. Ecco, io in questo romanzo ho voluto pormi il problema del 'prima', affondare le mani nell’estrema povertà delle nostre terre nei secoli precedenti il Cinquecento, e affrontare un tema che molti trattano come fosse sempre a lieto fine: quello della resilienza.”
Parlando di diversità, secondo lei la cultura italiana è pronta ad accogliere, proprio nella pratica, questo concetto?
“La pratica ci mostra evidenti aree di miglioramento, per non parlare del rainbow-washing, ossia le prassi di facciata che nascondono realtà ancora discriminatorie. Ma sono ottimista per il futuro, sia pure a lungo termine, perché noto come oggi questo tema sia all’ordine del giorno ovunque, anche dove viene contestato. Pensare insistentemente a qualcosa è la miglior premessa a che quella cosa diventi interessante, venga capita e sia trattata di conseguenza.”
Più volte ha raccontato degli episodi spiacevoli sulla reazione che alcune persone hanno al suo essere un crossdresser. Tali episodi la rafforzano in questa volontà di esserlo o a volte è tentato di rientrare nell'anonimato?
“La scelta è fra essere crossdresser e morire. Metti il caso che la gente ridesse di te perché… respiri. Che faresti? Smetteresti di respirare? Per me indossare i miei abiti è l’equivalente, un fatto di identità prioritaria, mi riesce difficile spiegarlo meglio in poche righe (l’obiettivo del mio memoir era appunto spiegarlo bene, attraverso l’intensità e lo spazio di un romanzo).”
Negli ultimi mesi la cronaca nazionale è densa di episodi di violenza. Che riflessioni fa su questo dato di fatto?
“Se ne potrebbero fare tante ma qui scelgo solo la principale: dopo 32 anni a crescita zero (che stanno per diventare 33) di soldi ce n’è sempre meno e di frustrati sempre di più. Le violenze, contro chicchessia, nascono da qui.”
Nella sua attività professionale si è mai occupato di gioco in denaro e che atteggiamento ha nei confronti di questo settore?
“Sinceramente mai, e non ho giocato se non due volte nei miei anni verdi, una al Casinò di Sanremo, perdendo pochissimo perché il mio budget di ventenne era limitato, e una al Caesar’s Palace di Las Vegas, uscendo in pari. Ebbi la forza di dirmi 'è stata l’ultima volta'. Promessa mantenuta.”