La Cina teme i videogame, ma teme di più la borsa
Un articolo di giornale che definisce i videogame oppio spirituale causa il crollo in borsa delle aziende videoludiche cinesi, costringendo a un dietrofront i media governativi.
Le critiche dei giorni scorsi al panorama videoludico, con il loro contorno di fluttuazioni in borsa, hanno dimostrato quanto possa essere volubile anche un governo per molti versi integerrimo come quello cinese. Da anni l'amministrazione cinese si dimostra attenta a quello che è il nuovo fenomeno dell'intrattenimento giovanile e, nel contempo, il prodotto di un industria florida è in continua espansione.
Se da una parte, secondo i burocrati cinesi, occorre porre un freno ha un utilizzo eccessivo dei videogiochi da parte dei giovani cinesi (che secondo alcune stime passerebbero davanti ai videogame una media di 8 ore al giorno, con problemi sul rendimento scolastico e sulla salute psicofisica), dall'altra non si possono tarpare le ali di un'industria così importante per il paese.
Negli anni scorsi il governo cinese si è posto il problema cercando continuamente un equilibrio. Tra scatti in avanti improvvisi, imponendo limiti di utilizzo ai ragazzi e bloccando lo sviluppo di alcuni progetti videoludici (impedendogli di passare il vaglio della censura governativa) e accordi specifici con i propri colossi industriali del settore che parallelamente hanno ricevuto, e ricevono, un sostegno fondamentale per il loro sviluppo nazionale e internazionale.
Un sunto perfetto di questa continua ricerca di equilibrio lo abbiamo visto negli ultimi due giorni quando un articolo pubblicato sul principale quotidiano nel Partito comunista cinese, nel quale i videogiochi venivano definiti addirittura "oppio spirituale" per i giovani, ha finito col causare, nel giro di poche ore, una perdita del 10 percento delle quotazioni di multinazionali cinesi come Tencent e NetEase (ma anche altre, come Xd e Gmge) alla borsa di Hong Kong.
Un crollo che ha costretto gli organi di informazione cinese controllati dal governo ad un immediato dietrofront. Così, subito dopo, l'articolo che definiva i videogiochi "oppio spirituale", dopo essere stato rimosso dal sito e dai social, è stato definito una notizia normale alla quale sarebbe stata data "un'interpretazione eccessiva", come ha scritto Hu Xijin, editore del Global Times, sul suo account WeChat, una delle piattaforme social più usate nella parte orientale del mondo.
Come riporta un articolo pubblicato dal Sole 24 Ore a firma di Luca Tremolada, tra i più esperti giornalisti italiani del settore, la retromarcia avrebbe ridato respiro alle quotazioni delle principali aziende cinesi del mondo videoludico, fugando dal mercato quelle che probabilmente erano le preoccupazioni di una nuova stretta imposta dal governo allo sviluppo e alla diffusione dei videogame.
Quello cinese del videogame, d'altronde, con 740 milioni di giocatori attivi e un giro d'affari di 36 milioni di dollari (dati del 2020), è il primo mercato al mondo. La sola Tencent (proprietaria di Riot Games e di quel League of Legends che è il gioco principe a livello mondiale della scena competitiva), con il suo Honor of King, attira in questo periodo circa 100 milioni di utenti al giorno. Una potenza soprattutto economica (il suo proprietario, Pony Ma, è oggi il secondo uomo più ricco della Cina) che probabilmente avrà alzato un dito dicendo basta, portando una fonte che Repubblica.it definisce "vicina al governo" a dichiarare al South China Morning Post che "l'attacco contro il settore non rappresenta la posizione ufficiale di Pechino".