Basta a difese d'ufficio del settore: 'Dov'è l'Orsini del gaming?'
La difesa d’ufficio del gioco è il catenaccio, anzi il concedere qualche gol a porta vuota ai neo-proibizionisti, per fare business con il minimo nuovo danno ad ogni giro.
"Hitler non voleva la seconda guerra mondiale”. “Se la Russia attacca la Nato, l’Italia dovrebbe uscirne”. “I talebani sono come i partigiani”. Immagino sappiate chi ha pronunciato in televisione queste vaccate.
C’è qualcosa che dovremmo imparare dalla manipolazione dell’opinione pubblica contro i vaccini e contro la difesa dell’Ucraina: cioè che – cercando bene – è possibile trovare qualcuno pronto a sostenere un’idea che si riteneva prima indifendibile. E che una volta che questa entra in circolo – qualunque ne siano i meriti e qualunque sia la qualità degli argomenti – si attivano dei meccanismi di reazione che producono due effetti: il primo è l’adesione di principio da parte di chi definisce la propria personalità in termini di conflitto e opposizione, e quindi gode ad appoggiare idee eccentriche anche a costo di negare l’evidenza; il secondo è lo spostamento dell’asticella dell’”insostenibile” un po’ più in là. Diventa argomento di discussione ciò che prima era dato per scontato.
Per il gioco questo non è mai avvenuto. Nessuno, a mia memoria, ha mai spostato l’asticella dicendo: una società basata sull’azzardo è meglio di una basata sul lavoro.
Oppure: il gioco dovrebbe essere completamente detassato, anzi poker e scommesse dovrebbero essere spese incentivate. Oppure il problema del gioco patologico non esiste al di fuori delle slot e dei gratta e vinci.
Capisco perfettamente che queste dichiarazioni possano suonare irricevibili, immorali, oppure false: è solo perché non siamo abituati a sentirle. Ma son perfettamente argomentabili. A mio parere, certamente più che l’idea che un vaccino in una pandemia sia una violenza, che un’invasione di conquista territoriale possa essere giustificata, o che attaccare il Congresso per non certificare l’elezione di un presidente avverso sia ok.
La difesa d’ufficio del gioco è il catenaccio, anzi il concedere qualche gol a porta vuota ai neo-proibizionisti “per dimostrarsi ragionevoli e responsabili”, con l’unico obiettivo di continuare a far business con il minimo nuovo danno ad ogni giro.
Io non sono sicuro che questa strada possa ancora funzionare, perché, semplicemente, i danni si accumulano, gli effetti si moltiplicano, e il risultato è la famosa rana bollita.
Il gaming non ha bisogno di un Alessandro Orsini (perché – ad esempio – è incapace di ironia, quindi scusate il titolo read-bait), ma certamente di un Christopher Hitchens, capace di abbattere Madre Teresa di Calcutta o di provocare con un libro dal titolo “Perché le donne non sono divertenti”.
E no, se vi è venuto in mente Nicola Porro come candidato non ci siamo capiti. Il problema è che a difendere il gioco si presenta solo chi ne ha un interesse e questo condiziona pesantemente l’efficacia del messaggio. Anche Michael Dugher, presidente del Betting and Gaming Council inglese e senza dubbio portatore di una linea battagliera anche sui social, più di tanto non può fare. L’accettazione di una posizione estrema inizia giudicando positivamente il portatore de messaggio. Che quindi, per forza di cose, dovrebbe essere esterno, disinteressato, spontaneo e popolare.
La liturgia (ipocrita finché si vuole) della “pluralità delle voci” nei dibattiti televisivi pone le condizioni per osare e attaccare la noiosa dottrina del “gioco cattivo” alle fondamenta e associarlo invece al valore della trasgressione, della ribellione (al “mainstream” ovviamente) del conflitto sociale e ideale che diventa motivo di orgoglio. Ridere in faccia ai limiti, ai divieti e alla condanna morale (“i giudizi delle élites!”).
Beh, diciamo che probabilmente non succederà.
Però due bellissimi volumi eretici (“contro il pensiero unico!”) pieni di argomenti convincenti li ho sul comodino: uno è Reuven Brenner, “Gambling and Speculation: A Theory, a History, and a Future of some Human Decisions” (Cambridge University Press, 1990), un secondo più recente di Joseph Buchdahl “Squares and Sharps, Suckers and Sharks: The Science, Psychology & Philosophy of Gambling (High Stakes, 2016). Ottima alternativa alla tv (soprattutto se c’è Orsini).