Alessandro Piperno e l'eterna ricerca dei colpevoli
Alessandro Piperno sonda ancora una volta l'animo umano nelle sue mille domande esistenziali e fragilità, in un'opera ricercata ma che impersona il valore, anche ludico, dell'arte dello scrivere.
“L'idea che le catastrofi avvengono perché avvengono è insostenibile. Per questo tutti sono alla ricerca spasmodica di un colpevole. Per questo sono tutti ossessionati dalla cospirazione. È difficile accettare il pensiero di essere i soli protagonisti della propria vita. Macché, molto meglio dare la colpa al prossimo”. Questo il filo conduttore, narrato in uno dei suoi (tanti) bellissimi passaggi, del nuovo libro di Alessandro Piperno, “Di chi è la colpa”, edito da Mondadori: la colpa, tema difficile ma sul quale tutti noi, più volte nel corso della vita, siamo chiamati a fare i conti.
I libri di Piperno hanno degli elementi in comune: la memoria; il senso di famiglia e di appartenenza; le debolezze, le futilità e le miserie umane. In questo, però, si trovano due elementi di spicco, che andiamo ad analizzare direttamente con lo scrittore romano.
Il primo, ovviamente, è il senso di colpa pervasivo del protagonista, e non solo, che coinvolge anche il lettore in un vortice di disagio.
Da dove ha tratto questa ispirazione e in che modo, secondo lei, ciascuno dovrebbe gestire il proprio senso di colpa? “Quello della colpa è un tema che vivo con grande passione e che mi accompagna da quando ho memoria. La colpa è quella sensazione spiacevole che alberga come una fitta nello stomaco e che ti fa sentire che sarai costretto a pagare un dazio gravissimo. Nel libro mi interessa l'ossessione del protagonista di trovare un colpevole, il che è molto comune, anche nel mio mestiere. Molti autori hanno l'abitudine, se un libro non va bene come si aspettavano, di prendersela con il pubblico, con l'ufficio stampa, oppure con un recensore feroce”.
Altro tema che spicca molto in questo suo libro è l'ebraismo: ciò che è, ciò che non è, cosa significa essere ebrei oggi in Italia e come l'esserlo viene percepito dai “cananei”, come definisce nelle sue pagine chi non lo è. Cosa ci può dire al riguardo? “Non so cosa significhi essere oggi ebreo in Italia, in quanto la mia condizione è un po' anfibia, non ho un rapporto stretto con la comunità ebraica romana. La questione che affronto nel libro è quella che attiene all'identità. È difficile capire chi è un ebreo: è quello che va in sinagoga? È quello che vive nel west end israeliano, oppure a Largo Argentina a Roma? Nel mio piccolo, questo quesito si presenta come un problema, non completamente risolto: vuoi sentirti ebreo ma ti senti escluso. Ecco, l'unica cosa che so è che essere ebreo è un problema”.
Quello che colpisce della sua scrittura è la complessità sia formale che sostanziale, ma sempre alla portata di tutti e immune dall'intellettualismo fine a se stesso. Come nasce e si sviluppa la sua scrittura? “Anche se può sembrare artificiosa, la mia scrittura è assolutamente naturale e riproduce il ritmo suadente dei miei pensieri. Certamente c'è una cura totale e una grande attenzione alla forma”.