Parliamo spesso (e per fortuna) di gioco responsabile. E della responsabilità degli addetti ai lavori che operano nel comparto rispetto ai consumatori, che va oltre la normale responsabilità di impresa che appartiene a qualunque altro settore. Ma forse dovremo parlare più spesso di responsabilità politica e di quella dei partiti (o Movimenti) che a differenza di molte imprese sembrano spesso meno preoccupati delle conseguenze delle loro azioni e degli impatti sulla comunità e sui cittadini.
Questo, almeno, è ciò che appare, sempre più spesso, dalle azioni e decisioni intraprese dai nostri rappresentanti politici e istituzionali e dall’attuale classe dirigente più in generale. Anche se è proprio nella politica e tra i partiti che si registrano le situazioni più estreme. E preoccupanti. È evidente i questi giorni, come forse non mai, dopo che lo strappo dei 5 Stelle ha portato a una nuova crisi di governo. L’ennesima, all’interno della stessa Legislatura, che dovrebbe portare alla costituzione del quarto governo in meno di cinque anni. Per quella che sembra diventare una temibile tradizione italiana. Solo che stavolta la situazione è ancora più grave e, forse, addirittura paradossale, se si tiene conto del momento storico così particolarmente difficile e intenso che tutti i governi nazionali si trovano ad affrontare e che le imprese devono subire, Italia in testa: dall'infinita lotta alla pandemia, che non sembra ancora trovare la via d'uscita, alla guerra in Ucraina (anch'essa apparentemente infinita) e alle conseguenze sulle diverse economie e su gran parte dei settori. Senza parlare, poi, dei rincari delle materie prime, dell'energia e di tutti i beni di consumo a causa di un'inflazione galoppante che stanno schiacciando cittadini e imprese. E come se tutto questo non bastasse, anche il pianeta sta presentando il suo conto, mostrando in tutta la sua drammaticità gli effetti (devastanti) del cambiamento climatico, provocando altre emergenze, altrettanto drammatiche, anche per l'economia. Come la siccità, che rischia di minare a fondo (anche) l'economia dell'Italia, fortemente basata sulla produzione agroalimentare.
Ebbene, di fronte a tutto questo e alle molteplici necessità ed emergenze, la politica italiana ha pensato bene di far saltare il banco. Proprio quando – per giunta – l'esecutivo si trova(va) alle prese con l'attuazione di un Piano nazionale di (presunta) ripresa e resilienza che, al contrario, impone scelte e azioni costanti, progressive e un ritmo serrato, per non mancare gli importanti obiettivi fissati da Bruxelles e gli impregni presi dal governo, proprio attraverso il premier Mario Draghi. Eppure, nonostante tutto questo - senza entrare nel merito delle ragioni o delle colpe di una parte politica o dell'altra – resta il fatto che i nostri rappresentanti che non hanno trovato niente di meglio da fare che innescare una crisi, rischiando di buttare all'aria tutto l'immenso lavoro fatto fino ad oggi, tra mille difficoltà. Alla faccia della responsabilità, che continua invece a essere sbandierata da tutte le forze, ogni volta in cui si parla di crisi e di nuovi governi. “Valuteremo il da farsi, con grande senso di responsabilità”, è il classico refrain che sentiamo ripetere da tutte le parti, in questi giorni, come tutte le altre volte in cui ci siamo trovati in situazioni simili. Perché invece non adottarlo prima, questo approccio “responsabile”, invece di far saltare il tavolo? Ma soprattutto, quello che ci si chiede in questi casi, è: chi si assumerà davvero le responsabilità di un eventuale crollo totale del paese e dell'economia? A chi dovremo chiedere i danni, in caso di un default, di fronte a un governo neppure eletto e a un continuo rimbalso di colpe e di (mancate) responsabilità?
Ma è la stessa domanda, proseguendo con il ragionamento, che bisognerebbe porsi, a tutti i livelli. Come per esempio nel caso delle Regioni o dei singoli enti locali, di fronte all'attuazione di leggi territoriali che nell'intento (presunto) di tutelare la salute pubblica, finiscono col compromettere l'esistenza di imprese e di posti di lavoro, senza neppure riuscire a salvaguardare davvero i cittadini. Anzi, al contrario, andando a minare ulteriormente la sicurezza dei consumatori e la legalità, riportando in auge l'offerta di gioco illegale concedendo quegli spazi di cui era stata privata per lunghi anni, proprio grazie all'esistenza di un'offerta di gioco di Stato. Nella Regione Lazio, dove sta per entrare in vigore la scadenza centrale della legge “anti-gioco” adottata nel 2013, rischiano di essere cancellati oltre 12mila posti di lavoro, a causa della chiusura di migliaia di aziende imposta ex lege dall'amministrazione locale. In un territorio già di per sè difficile da governare, in termini di contrasto all'illegalità, come ci hanno insegnato diverse situazioni di cronaca: dallo scandalo di “Mafia Capitale” a tanti altri epidosi legati direttamente o indirettamente alla criminalità. Figuriamoci quindi cosa potrebbe accadere nel caso in cui dovesse sparire quel presidio di legalità garantito oggi dal gioco di Stato, in una Regione dove la propensione al gioco è da sempre altissima, come descrivono i dati della raccolta (legale).
E allora: chi ne risponderà di questo eventuale scempio, che sembra delineare un autentico suicidio di Stato? Chi pagherà per quei posti di lavoro persi, per quelle imprese che dovranno abbassare le saracinesche, proprio nel momento storico forse più difficile dell'economia dal dopoguerra ad oggi? Forse è arrivato il momento di porsi anche queste domande. Almeno adesso che ci sono ancora i tempi per rimediare agli errori commessi: sia a livello governativo e parlamentare, che a livello regionale. Il gioco è bello quando è responsabile. La politica, pure.