Primavera rimandata per i giochi: senza ossigeno non c'è futuro
Il calendario segna l'avvento della primavera ma per il comparto giochi la bella stagione è ancora lontana: senza un piano di riapertura e ristori insufficienti.
Il cambiamento c'è, ma non si vede. Non ancora. E' questo il sentiment che si può raccogliere tra le imprese del gioco pubblico all'indomani dell'emanazione dell'atteso decreto Sostegni, che sembra assumere i connotati di un topolino, partorito (e con fatica, pure) dalla montagna del nuovo governo. Anzi, a dire il vero, il provvedimento di sostegno all'economia – che rappresenta il quinto durante la pandemia e il primo dell'epoca Draghi – è stato dichiarato insufficiente dai rappresentanti di gran parte dell'industria, soprattutto dalle filiera in maggiore difficoltà e dai settori più colpiti dal lockdown. Tra questi, come noto, c'è il comparto del gioco pubblico, ormai prossimo a raggiungere i dieci mesi di chiusura sui dodici che hanno caratterizzato fino ad oggi l'emergenza sanitaria. Ma forse è già questa una novità, almeno per il settore: se è vero (come è vero) che il decreto Sostegni è finito con lo scontentare tutti (o giù di lì), è altrettanto evidente che il gioco pubblico, una volta tanto, viene trattato alla pari degli altri. Per questa ragione, anche se il giudizio concreto e generale nei confronti delle misure di intervento è piuttosto negativo, per le imprese del gioco rappresenta già un primo risultato. Per quanto assurdo possa apparire, ma tant'è. Quanto meno questa volta non si è dovuta subire anche la solita, ripetuta discriminazione perpetrata dai vari governi nei confronti del comparto. Soprattutto dai due precedenti esecutivi guidati dall'ex premier (e oggi, nuovo Capo popolo del Movimento 5 Stelle) Giuseppe Conte.
Del resto, va detto, le misure introdotte oggi dal nuovo governo sono diretta conseguenza di quanto era stato impostato dal precedente, come evidenziato dallo stesso Mario Draghi nella conferenza stampa di presentazione del provvedimento: “Questo decreto è una risposta significativa, molto consistente, orientata al bisogno che hanno le imprese di essere aiutate e ai lavoratori”, ha detto il premier, in un esercizio di straordinaria schiettezza. “E' un intervento parziale, ma è il massimo che abbiamo potuto fare all'interno di questo stanziamento”, ricordando come “L'insieme degli interventi è di 32 miliardi ed è lo stanziamento già approvato dal parlamento dal governo precedente”. Quasi come a dire che l'esiguità delle risorse non dipenda da lui né dall'attuale ministro dell'economia. Dichiarandosi “consapevoli che molto probabilmente si tratta di risposte parziali”, spiegando di aver già considerato l'ipotesi di aver un ulteriore stanziamento in occasione del Documento di economia e finanza, come abbiamo già anticipato su queste pagine. Per le imprese del gioco, dunque, come per gran parte delle altre realtà economiche del paese, non resta quindi che augurarsi uno slancio ulteriore e maggiormente significativo nei prossimi mesi e nei prossimi provvedimenti, una volta che si andranno materializzando anche gli aiuti provenienti dall'Europa, su cui sembra sempre più basarsi ogni possibile disegno futuro che il governo sia in grado di abbozzare. Ma sarà bene fare presto: soprattutto nei confronti delle imprese del comparto giochi: prima che sia troppo tardi. Sì, perché i dieci mesi di chiusura, combinati con la pressoché totale assenza di ristori e di misure di sostegno, anche indirette, come quelle adottate in altri paesi (dalla cancellazione delle tasse alla sospensione o rimborso degli affitti o delle utenze) hanno impoverito progressivamente l'intera filiera, a tutti i livelli, facendo evaporare ogni riserva di capitali, per chi ce l'aveva. Peggio ancora se si tiene conto – come dovrebbe fare il Mef prima di chiunque altro – che il settore del gioco terrestre scontava già una partenza difficile, a inizio 2020, provocata dai repentini aumenti di tassazione che avevano investito sia il segmento degli apparecchi da intrattenimento che quello delle scommesse, con il primo che aveva pure dovuto sobbarcarsi nuovi e ulteriori investimenti per la sostituzione del parco macchine, sempre a causa del cambiamento normativo precedentemente disposto. Per questa ragione il comparto ha bisogno non soltanto di ristori concreti, ma anche - e soprattutto – di interventi mirati (come la sospensione del Preu, la sospensione di altri oneri e la concessione di proroghe) e di riforme. Senza i quali non potrà neppure immaginare un proprio futuro.
Nel frattempo, tuttavia, il nuovo premier sta cercando di imporre il proprio marchio di fabbrica sul suo mandato alla guida del Consiglio dei ministri. Lo ha già fatto, in minima parte, ritoccando e annunciando il Dl sostegni, i cui capisaldi, come illustrato in conferenza stampa, sono: le imprese, l'aiuto alle imprese, il sostegno alle imprese a al lavoro e la lotta contro la povertà. “L'obiettivo del decreto – ha spiegato Draghi - è di dare più soldi possibile e più velocemente possibile”. Tanto per dimostrare, con una buona dose di concretezza, di ben conoscere ciò di cui c'è bisogno in questo momento, che certo non sfugge a un ex governatore della Banca d'Italia ed ex leader della Banca centrale europea.
Nell'impronta del premier, peraltro, si può scorgere un altro solco già tracciato e orientato a un nuovo futuro, in termini di politiche economiche e generali. L'obiettivo, ormai anche espressamente dichiarato, è quello di concentrare gli aiuti sulle aziende che – una volta superato l’impatto della pandemia – saranno in grado di ripartire con le proprie forze. Mettendo da parte, quindi, le cosiddette “imprese zombie”, cioè quelle che erano in crisi già prima dell’arrivo del Covid e che, senza gli aiuti pubblici, non riuscirebbero a rimanere sul mercato. A questo proposito, il nuovo ministro dell’Economia, Daniele Franco, ha detto davanti all’Eurogruppo che “servono soluzioni più specifiche e mirate”. Un cambiamento di filosofia che porta con sé anche una seconda e ulteriore rivoluzione, che riguarda il metodo, ossia i criteri di assegnazione degli aiuti. Fin qui, il governo giallorosso ha smistato soldi a fondo perduto per restituire alle aziende circa il 20 percento del fatturato bruciato dal Covid, prendendo come riferimento la perdita su base annua registrata ad aprile 2020. Ora Draghi punta a stabilire criteri più uniformi e meno arbitrari, basati non più sul calo dei ricavi, ma sul rimborso dei costi vivi (come affitti, manutenzione e bollette), i più decisivi per la sopravvivenza delle imprese.
Se, da un lato, non ci sono dubbi che il comparto giochi rappresenti un settore tutt'altro che moribondo dal punto di vista economico e finanziario, tenendo conto della forte redditività (per lo Stato) e la spiccata resilienza, dall'altro bisogna pur considerare che, guardando bene all'interno, si possono scorgere migliaia di imprese che ne costituiscono la base e la cui situazione è divenuta progressivamente critica, già prima della pandemia, per poi peggiorare in seguito al lockdown. Alcune delle quali, peraltro, sono diventate potenzialmente delle “imprese-zombie” a causa dell'entrata in vigore di leggi regionali che gridano vendetta, e chiedono soluzioni. Per le imprese del gioco che si trovano in territori ostili come Piemonte, Emilia-Romagna o Lazio, il proprio status di morti-viventi non è dato, infatti, dalla loro insolvibilità o incapacità imprenditoriale, bensì dall'eccesso di rigore o dalla miopia di taluni amministratori regionali che nella ricerca di un non ben definitivo consenso, hanno pensato di introdurre misure contro la proliferazione del gioco d'azzardo, il cui risultato è stato solo e unicamente quello di uccidere imprese sane e l'offerta legale di gioco, lasciando spazi enormi all'illegalità, che verranno presto occupati dalla criminalità. Su questo, c'è senz'altro da scommettere. Anche se i pronostici sono più che scontati: anzi, il risultato è praticamente certo. Ma il governo ha la possibilità di cambiare le sorti della partita, salvando le imprese e tutelando, stavolta davvero, i consumatori e non solo i lavoratori.