Prendete un settore scomodo, o comunque insidioso, mettetelo in mano a una classe dirigente non sempre all’altezza della situazione e conditelo con una buona dose di pregiudizio. È questo il mix letale a cui è sottoposto, da sempre - cioè nei suoi circa venti anni di esistenza - il comparto del gioco pubblico italiano, che nella sua delicatezza di fondo ed elevata complessità, si scontra fin dal primo momento con una politica scivolata ai minimi storici in termini di credibilità - come accade ormai dagli anni Novanta - e per questa ragione alle prese con una continua ricerca di consenso. Avviluppata in un modus operandi pressoché sterile, spesso fine a se stesso, che invece di risolvere i problemi degli italiani e della nazione, preferisce limarli, depotenziarli o spostarli in avanti, ma sempre evitando gli argomenti più scomodi o spinosi, finendo talvolta col prenderne direttamente le distanze, evitando di occuparsene. Così, nonostante il settore dei giochi sia in grado di garantire ogni anno oltre dieci miliardi di entrate erariali, lo si continua a considerare un tabù: nella convinzione generale che intervenire nei confronti di in un settore che non gode di un’immagine positiva agli occhi dell’opinione pubblica possa rappresentare un autogol che gli elettori potrebbero far pagare caro. O prima ancora i propri avversari politici, pronti a strumentalizzare qualunque cosa, nella continua competizione politica e nella perpetua ricerca di consenso di cui sopra.
Del resto, è questo lo spirito del tempo nell’epoca dei social network e delle fake news. Lo vediamo anche da una recente ricerca di Forrester ripresa da Ilsole24Ore in cui si evidenzia che l'82 percento delle aziende, negli Stati Uniti, ha evitato di fare pubblicità nelle ultime settimane e durante lo spoglio elettorale per le Presidenziali. Per i brand, dunque, la presenza nelle fasi politiche più delicate è da maneggiare con cautela, persino centellinare. Una prudenza che si rispecchia nei fatti e che nasce dall’esigenza di arginare potenziali crisi reputazionali. Ciò significa, pertanto, che quello che conta oggi sono le percezioni. “La partita si gioca più sul come che sul cosa”, scrive Giampaolo Colletti sul quotidiano economico. A pesare è il sentiment da misurare. L'esposizione continua ai social e alle piattaforme mette a rischio le aziende su potenziali crisi che si basano appunto più sulle percezioni che sulle azioni. “Nell’attuale dinamica delle crisi non conta più ciò che effettivamente accade, ma ciò che gli stakeholder ritengono stia accadendo”. In questo caso, dunque, gli elettori, i cittadini. Nell'articolo – interessante – scritto insieme a Fabio Grattagliano, si intervista anche Daniele Chieffi, autore del libro “Crisi reputazionali ai tempi dell’Infosfera”, il quale spiega: “Le crisi oggi sono amplissime conversazioni che riflettono un’interpretazione collettiva negativa di un fatto, una reazione emozionale. Le persone reagiscono, fanno scelte, prendono posizioni sulla base delle proprie convinzioni. In questo contesto conta ciò che audience e stakeholder credono sia accaduto perché questo guida le loro reazioni e impatta direttamente le aziende, gli enti, i personaggi. Non c’è più bisogno di un fatto grave, un incidente, uno scandalo, per innescare una crisi. È sufficiente che non piaccia ciò che si fa. Più che informare bisogna convincere”. E non è forse un caso se lo stesso Chieffi, nei giorni scorsi, è stato protagonista anche nella moderazione dell'interessante Webinar promosso dalla Fondazione Fair sul ruolo dell'intelligenza artificiale nelle politiche e azioni di gioco responsabile. Sì, perché la partita, oggi più che mai, si gioca proprio attraverso la rete e gli strumenti tecnologici. Con il machine learning che, oltre a presentare una serie di rischi e di insidie, soprattutto in termini di strumentalizzazioni e fake news, riesce comunque a facilitare e decuplicare le possibilità e i modi di fare informazione (o, comunque, di divulgare notizie). Ma come scrive anche Yuval Noah Harari: in un mondo alluvionato da informazioni, la lucidità è potere. Dai fatti alle interpretazioni, occorre quindi mantenere la calma, come suggerisce l'articolo del Sole. Ma non è affatto semplice, per le aziende. Come pure sembra impossibile per i politici uscire da questo triste loop. Sì guardi per esempio, ampliando lo scenario, al cosiddetto “effetto backfire”: ossia il fenomeno psicologico in cui, quando ci si imbatte in informazioni che contraddicono le nostre convinzioni, si tende a rafforzare ulteriormente le proprie idee iniziali, anziché modificarle. Quindi, se si ha un pregiudizio nei confronti di una certa tematica, di un settore o di una persona, capita che davanti alle fake news molti individui si aggrappino ancora di più alle informazioni errate, arrivando a percepire le smentite come tentativi di manipolazione. Oppure accade che i sostenitori di un certo partito interpretano le critiche al loro candidato come un attacco ingiustificato e una persecuzione, significando che il loro beniamino è dalla parte della ragione. Si tratta di in meccanismo subdolo, capace di autoalimentarsi, perché innesca una serie di altre dinamiche psicologiche che spingono l’individuo a polarizzarsi sempre di più. E qui è evidente il riferimento politico, rimanendo negli States, pensando a Donald Trump, che ha seguito esattamente questo percorso. Ma non è certo l'unico (né paese, né politico). L’effetto backfire è infatti esattamente del suo incantesimo magico, in grado di legare a sé un popolo che non cercava solamente una persona da votare, ma un’ideale da sostenere, un nemico comune da affrontare, una guerra da combattere. Al punto che i repubblicani di oggi appaiono praticamente impermeabili alle critiche verso Trump, sordi davanti agli scandali che emergono, fedeli verso un leader che incarna per loro una sorta di salvatore. Per questo il neoeletto presidente degli Stati Uniti può dire ciò che vuole, scagliandosi contro chiunque, e magari contro un settore, se questo può essere considerato il male. Anche se Trump, va detto, di certo non si scaglierebbe contro il gioco d’azzardo che lo ha reso celebre oltre che ricco. Ma come dicevamo prima: non è certo l’unico ad adottare questo approccio, nel mondo. E purtroppo vediamo le stesse tecniche adottate anche nel nostro paese. Con la conseguenza che, anche quando i toni (o i leader politici) sono più moderato rispetto al caso estremo di Trump, gli effetti sono comunque simili. Perché si finisce col non affrontare dinamiche, effettuare riforme o presente decisioni solo per evitare di accostare il proprio nome a un determinato tema. Per non cadere in qualche equivoco percettivo. Proprio come i brand americani durante le elezioni. Ma in questo caso, a parti invertite. Con la politica che prende le distanze dall’industria, prima ancora del viceversa. Oppure, forse, nel nostro caso è solo il solito e semplice lassismo della classe dirigente italiana? Sarebbe comunque meglio, probabilmente, di una premeditazione o peggio ancora di una mancanza di competenze o di capacità.