Dopo quello proposto da Sisal lottery, i giudici del Consiglio di Stato accolgono un altro ricorso dei concessionari – in questo caso Lotterie nazionali – in materia di applicazione del divieto di pubblicità al gioco introdotto dal decreto Dignità.
Con una nuova sentenza il Collegio accoglie infatti l'appello proposto da Lotterie nazionali per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio che nel 2021 che aveva dato ragione all'Agenzia delle dogane e dei monopoli a proposito della rendicontazione e la restituzione delle somme destinate secondo la convenzione di concessione all’assolvimento degli obblighi pubblicitari relativi al suddetto gioco, ma non impiegate a tale scopo a causa dell’introduzione del divieto di pubblicità dei giochi da parte del decreto Dignità.
Ecco quanto si legge nella sentenza del CdS.
“La tesi accolta dal Tar, per cui in base alle (lievi) differenze terminologiche dei commi 11 e 12 dell’art. 14 della convenzione, 'le somme da destinare obbligatoriamente allo scopo promozionale (costituirebbero)… un investimento che la stessa amministrazione effettua attraverso il concessionario del gioco in questione, consentendogli di trattenere dalla raccolta una percentuale aggiuntiva rispetto a quella sufficiente a remunerare le altre prestazioni contrattuali' contrasta, infatti, con quanto emerge dal contenuto della convenzione stessa, che inserisce comunque le iniziative 'anche promozionali' tra tutti gli 'impegni del concessionario', che questi è chiamato a sostenere nello svolgimento dell’attività di raccolta e gestione dei giochi pubblici denominati lotterie nazionali ad estrazione istantanea (art. 14 della convenzione) che gli compete.
Da nessuna delle disposizioni della convenzione può soprattutto dedursi, in verità, la asserita differenziazione sostanziale delle risorse con cui sostenere, da un lato, le spese per la realizzazione degli interventi di 'comunicazione ed informazione istituzionale' (che avrebbero dovuto essere affrontate con fondi propri del concessionario), e, dall’altro, le spese promozionali e propriamente pubblicitarie (per le quali avrebbero dovuto essere utilizzate somme fornite dall’Amministrazione, semplicemente 'trattenute in più' dal concessionario) che il Tar ha posto a fondamento del suo ragionamento, volto a riconoscere la spettanza all’Agenzia delle dogane e dei monopoli degli importi non spesi per l’attività di pubblicità dei giochi divenuta vietata a causa del 'Decreto dignità', come restituzione della provvista di un mandato divenuto inattuabile.
Oltre alla mancanza in atti di qualsiasi elemento in grado di richiamare direttamente o indirettamente la fattispecie del mandato, per l’erroneità di tale interpretazione depone, in primo luogo, il dettato letterale della convenzione che, come evidenziato, include lo 'stanziamento' degli importi per la pubblicità tra gli obblighi del concessionario (art. 14 cit.) e 'a fronte degli adempimenti connessi all’affidamento delle attività e delle funzioni previste dalla concessione per ciascuno dei giochi pubblici…(attribuisce) direttamente al concessionario un aggio pari all’11,90 percento della raccolta'.
Il suddetto corrispettivo dovuto al concessionario risulta unitariamente e complessivamente considerato ed è accompagnato soltanto dalla specificazione del fatto di essere 'comprensivo del compenso dovuto ai punti di vendita previsto dalla normativa vigente attualmente pari all’8 percento (art. 23 della convenzione), senza alcuna ulteriore precisazione né alcun cenno alle spese pubblicitarie'”.
Quindi, secondo i giudici del Consiglio di Stato “Un’attenta lettura congiunta dell’art.23 cit. e del comma 12 dell’art. 14 conduce, dunque, a non poter in alcun modo condividere le argomentazioni sostenute dalla difesa erariale e fatte proprie dai giudici di prime cure circa lo scorporo della percentuale dello 0,50 percento - da destinare alle spese pubblicitarie – dall’aggio (che si ridurrebbe dunque, senza alcuna espressa previsione della legge o della convenzione all’11,40 percento), essendo quest’ultimo predeterminato dalla legge e rappresentando l’individuazione degli importi per le attività di promozione attraverso il riferimento ad una percentuale della raccolta solo una tecnica di calcolo degli importi stessi, che nulla dice sulla spettanza delle risorse ove, come nel caso de quo, divenute in seguito inutilizzabili per il fine programmato per factum principis.
Al riguardo occorre, inoltre precisare l’erroneità, anche sotto un distinto profilo, della pronuncia appellata circa la riconducibilità alla sola amministrazione dell’interesse a pubblicizzare i giochi, condiviso, invece anche dal concessionario, mosso in ogni caso dal fine di massimizzare il proprio profitto e tenuto a rispettare il minimo garantito contrattuale, pari per ciascun anno di gestione al 60 percento della raccolta dell’anno precedente.
In tale prospettiva trovano una ragionevole spiegazione anche gli obblighi di rendicontazione preventiva e successiva dell’attività promozionale previsti nella convenzione, che non risultano certo in grado di ricondurre direttamente all’amministrazione le risorse utilizzate per l’assolvimento degli impegni pubblicitari, ma si giustificano quale forma di controllo da parte dell’autorità pubblica al rispetto del limite posto all’utilizzo dei mezzi privati e quale strumento per assicurare che politiche volte alla massimizzazione dei profitti non vadano a detrimento della salvaguardia della salute ex art. 32 della Costituzione, rischiando di alimentare il pericoloso fenomeno della ludopatia.
Da qui la sussumibilità delle spese in questione tra le obbligazioni proprie del concessionario, da sostenersi con fondi propri, la fondatezza, come anticipato, dell’appello e la declaratoria dell’illegittimità degli atti impugnati con il ricorso di primo grado e con i motivi aggiunti, con i quali l’Amministrazione si è limitata a chiedere la rifusione di tutte le somme originariamente destinate ad attività pubblicitarie e non spese per il sopravvenuto divieto imposto dal decreto Dignità in base ad un preteso mandato ad investire in tale settore, che non ha trovato alcuna conferma dalla disciplina convenzionale e legislativa in materia.
In riforma della sentenza appellata tali atti devono, quindi, essere annullati, salva la necessità per le parti di risolvere il problema della spettanza degli importi 'risparmiati' a causa del divieto posto dal decreto Dignità attraverso le regole proprie della sopravvenuta impossibilità parziale delle obbligazioni e, nell’eventualità, tramite la procedura di riequilibrio economico finanziario delle concessioni di cui al’art. 165 comma 6 del Dlgs. n. 50/2016".