E' giusto continuare a invocare la riaperture dei locali di gioco mentre mezza Italia, a partire da questa settimana, diventa zona rossa e con l'intera Penisola lo sarà durante le festività pasquali? E' questa la domanda che si pone più di qualcuno, all'interno del settore del gioco pubblico, nel portare avanti la “battaglia” istituzionale mirata alla riapertura dei locali. Con alcuni addetti ai lavori che hanno ormai deposto le armi, dopo che il loro grido di dolore, lanciato a gran voce durante la doppia manifestazione di Roma e Milano - pur non essendo rimasto del tutto inascoltato - sembra essere caduto nel vuoto, attenendosi strettamente ai fatti. Al punto che, anche nell'unica Regione transitata in zona bianca, ovvero la Sardegna, i locali di gioco sono stati estromessi dalla riapertura. Per una discriminazione ancora più grave ed evidente. In effetti, va detto, parlare di riaprire il settore – pur essendo stato sottoposto al più lungo lockdown della storia dei nostri giorni - rischia di apparire del tutto anacronistico: mentre nel paese si continua a morire, diranno i più rigoristi, non si può pensare di allentare le maglie delle restrizioni. Eppure la richiesta dei lavori del gioco pubblico, continua a rimanere più che legittima. E ragionevole, pure. Anche in un momento così critico come quello attuale. Per una serie di motivazioni, che è bene qui ricordare.
In primo luogo, si tratta di una questione di coerenza (nonché di logica) normativa e regolamentare. Al di là di alcune derive che definiremmo bizzarre - se non fossero drammaticamente preoccupanti – come quella della Regione Umbria, in cui con la stessa ordinanza vengono chiuse tutte le scuole, anche al di là delle norme nazionali, pur riaprendo le attività commerciali nel fine settimana – anche guardando all'ultimo aggiornamento delle "faq" governative del 14 marzo, pubblicato in vista delle nuove restrizioni in vigore da lunedì 15, si hanno degli ottimi spunti di riflessione. Palazzo Chigi ha infatti chiarito il novero delle attività che potranno rimanere aperte anche in zona rossa e quelle invece dovranno chiudere i battenti: pur essendo sospese le attività di commercio al dettaglio - fatta eccezione per la vendita di generi alimentari e di prima necessità individuati in uno specifico allegato – rimangono aperte edicole, tabaccai, farmacie e parafarmacie. E tanto basta, secondo qualcuno, per invocare la riapertura di qualche attività di gioco, tenendo conto delle similitudini tra alcune attività consentite (persino) in zona rossa, come gli stessi tabaccai (peraltro sedi di altri giochi, come le lotterie), guardando strettamente al criterio della necessità dei beni di consumo autorizzati alla vendita, ma anche ai criteri di sicurezza adottati nei locali. Ebbene, se in zona rossa sono comunque consentite talune attività, possibile che i giochi non possano essere riaperti, neppure in minima parte, almeno in zona gialla? Insieme a bar e ristoranti, e tanti altri locali potenzialmente più a rischio di quelli di gioco (dai parrucchieri ai centri estetici, e così via), non sembrerebbe poi così assurdo riaprire anche i giochi: sia pure con criteri assai rigidi e frequentazioni circoscritte e ben regolamentate. Ed è qui che la trattazione della materia gioco grida vendetta. Peggio ancora, poi, se si torna a pensare al caso clamoroso della Sardegna in cui, addirittura, non si riaprono le attività di gioco neppure in zona bianca. Fornendo quindi una ragione in più, rispetto a quelle già espresse, per continuare a invocare la ripartenza del settore, visto che al di là delle zone rosse, esistono comunque delle zone che godono di situazioni migliori dove non può avere più senso tenere fermi i locali di gioco, tenendo conto degli elevati standard di sicurezza che sono stati in gradi di provare e garantire durante i precedenti mesi di riapertura della scorsa estate. Almeno questo, infatti, deve essere l'obiettivo minimo da raggiungere da parte dei lavoratori.
Del resto, a venire in supporto degli addetti ai lavoratori, se non altro in termini di argomentazioni, è (almeno in parte) anche la giurisprudenza, con alcuni tribunali che – pur non accogliendo direttamente la richiesta di sospendere le restrizioni - hanno iniziato a sollevare qualche dubbio sulla linea governativa. Con il Tar del Lazio, per esempio, che nei giorni scorsi ha ritenuto "necessario" acquisire i verbali “del Comitato tecnico-scientifico, nonché le osservazioni tecniche effettuate dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano” ed ogni altro documento, di carattere tecnico scientifico, su cui si basano i Dpcm. Un modo per capire se possono stare ancora in piedi le (presunte) ragioni con cui sono stati fermati i giochi. Qualcosa di ancora più specifico viene poi rilevato dal Consiglio di Stato il quale, qualche giorno prima, con decreto cautelare della Terza sezione, ha offerto spunti ancora più interessanti, intervenendo sui criteri che devono sussistere alla base delle decisioni governative inerenti alla chiusura delle attività di gioco. Anche se, in sede cautelare, il “solito” Tar del Lazio aveva rigettato l’istanza di sospensione avanzata da alcuni operatori, rifacendosi al criterio del grado di “essenzialità” adottato dal Governo nella scelta delle attività da chiudere, ritenuto sufficiente a giustificare, da un punto di vista sanitario, il divieto di svolgimento dei giochi, aggiungendo peraltro anche un riferimento ai “potenziali pericoli” dati dalle “relative possibili aggregazioni” che si potrebbero riscontrare in tali locali.
Ebbene, nonostante tali presupposti, i giudici del Consiglio di Stato, pur confermando, per il momento, il provvedimento di rigetto dell’istanza cautelare emesso in primo grado, ha espresso motivi del tutto diversi da quelli del Tar. Mettendo così in discussione la fondatezza dei motivi della sua ordinanza, che sono peraltro gli stessi su cui si sono finora fondate le decisioni del governo per mantenere le chiusure. In particolare, dicono i giudici, “Il provvedimento impugnato sembra aver seguito il principio secondo cui anche difronte ad un rischio definito 'potenziale' la legittima risposta proporzionale può essere il divieto totale dell’attività”. Tale principio, anche alla luce della ormai lunga esperienza che le autorità scientifiche dovrebbero aver maturato nel monitoraggio e analisi dei fattori più rilevanti di contagio, “comincia ad incrinarsi”, e le indispensabili misure di precauzione “vanno adottate alla luce di una serie di valutazioni complete scientifiche del rischio sulla base di dati ostensibili e specifiche per ciascuna attività soggetta a limitazioni”. Ebbene, nel caso delle attività di gioco oggi sospese, “sin d’ora emerge la necessità che una specifica analisi scientifica dei fattori di rischio sia compiuta dall’autorità tecnica che ne ha tuttora la responsabilità”. Ovvero, il Comitato tecnico scientifico (Cts).
Ecco quindi che la pronuncia (parziale) del Consiglio di Stato ha il merito di portare la questione al nocciolo, mettendo cioè in luce la più grave (e assurda) mancanza all'origine della disparità di trattamento subito da giochi: ovvero il fatto che questo tipo di attività non sono mai state di fatto prese in considerazione da scienziati e governo e, quindi, non sottoposte ad alcuna valutazione tecnica e scientifica. Per una sospensione tout court che, forse, ha voluto semplificare la vita a chi doveva occuparsi di gestire l'emergenza, sia pure complicandola in maniera ancora più seria a tutti quei lavoratori che da quelle attività traggono il loro pane quotidiano. Per i quali l'essenzialità del gioco è più che evidente, senza bisogno di alcuna motivazione.
E' dunque fin troppo evidente che la prolungata interruzione delle attività di gioco non può continuare a stare in piedi, non più: con il settore che deve essere sottoposto agli stessi criteri stabiliti per tutte le altre tipologie di negozi. Se in zona rossa, dice il governo, “Le attività commerciali al dettaglio, contenute nell’allegato e che potranno rimanere aperte, dovranno comunque svolgersi a condizione che sia assicurato, oltre alla distanza interpersonale di almeno un metro, che gli ingressi avvengano in modo dilazionato e che venga impedito di sostare all'interno dei locali più del tempo necessario all'acquisto dei beni”. Oltre a “rispettare i protocolli o le linee guida idonei a prevenire o ridurre il rischio di contagio nel settore di riferimento o in ambiti analoghi” (fra cui “il mantenimento, in tutte le attività, del distanziamento interpersonale e la pulizia e l'igiene ambientale almeno due volte al giorno e in funzione dell'orario di apertura, nonché la garanzia di adeguata aereazione naturale e ricambio d'aria”, non si capisce perché le stesse precauzioni non debbano valere, fin d'ora, per i locali di gioco. Sia pure quelle più stringenti, come l'ingresso uno alla volta negli esercizi di vicinato (fino a 40 metri quadrati), oltre a un massimo di due operatori e l'accesso regolamentato e scaglionato, in proporzione alla relativa superficie aperta al pubblico, nelle medie e grandi strutture di vendita, differenziando, ove possibile, percorsi di entrata e di uscita. O l'obbligo di esporre un cartello che indichi il numero massimo di persone che possono essere contemporaneamente presenti all'interno dei locali. Se queste valgono, per molti locali, anche in zona rossa, perché non applicarle anche ai giochi, almeno in zona gialla? Per non parlare, peraltro, della zona bianca.
Di ragioni per continuare a chiedere la riapertura dei giochi, quindi, ce ne sono diverse e dovranno prima o poi trovare risposta. Ma finché ciò non avverrà, il governo ha comunque l'altro dovere da compiere che è quello di garantire agli operatori del settore adeguati strumenti di sostegno (o di ristoro che dir si voglia), come non è accaduto finora. Se proprio si vuole continuare a tenere la linea dura - come sembra accadere - procedendo con il criterio di massima cautela, allora si faccia in modo di garantire ai lavoratori dei contributi che permettano loro di scongiurare la chiusura delle aziende, che si tradurrebbe in un autentico dramma dal punto di vista occupazionale, con gravi risvolti economici e sociali. Se questo verrà garantito, come non è avvenuto finora, allora si potrebbe considerare meno sproporzionato il trattamento riservato al settore, come pure si verrebbe a ridimensionare la discriminazione subita dai lavoratori. Almeno quella durante la pandemia: mentre continuerebbe comunque a palesarsi l'evidente disparità di trattamento che continua comunque a subire il settore in molti territori: a partire dal Piemonte dove, non a caso, proprio in questi giorni si svolgerà una nuova manifestazione degli addetti ai lavori, stavolta non riferita alle norme anti-covid, bensì contro la legge regionale che già da prima della pandemia ha condannato molte imprese alla chiusura. Fornendo così un mix letale per i lavoratori, sommandosi ai vari Dpcm, andando ad anticipare ed enfatizzare i suoi effetti, già di per sé devastanti. Per tutte queste ragioni, dunque, bisogna far ripartire il settore, insieme alla macchina delle riforme e a quella dei ristori, senza le quali ci troveremo di fronte a un autentico disastro, compiuto sulle spalle (e sulla testa) di migliaia di imprese e lavoratori.