Ormai ci abbiamo fatto l'abitudine. Per ogni esigenza che si presenti all'attenzione della politica, grande o piccola che sia, la prima idea che balza alla mente è quella di trovare nuove risorse attingendo al grande Bancomat del Gioco Pubblico. Accade talmente spesso che quasi non ci facciamo più caso. Anche se a doverci far caso – obtorto collo, s'intende – sono gli amministratori delle imprese che operano nel comparto, già sottoposti a un livello di tassazione senza simili, in altri paesi (dove il gioco è tassato in modo del tutto diverso e, in linea di massima, inferiore), e pure in altri settori (visto che il gioco pubblico risulta il settore con la tassazione media più alta in assoluto tra quelli che compongono l'economia nazionale, come vari studi hanno evidenziato).
Eppure, per quanto frequente e ripetuta, questa pratica è da ritenersi ontologicamente anomala, e non solo pericolosa. Proprio per via delle considerazioni sopra esposte: guardando i dati economici che caratterizzano il comparto (come dovrebbe fare ogni politico, prima di proporre dei rincari) è più che evidente come non risultino più esserci spazi per ulteriori rincari, senza rischiare di compromettere il mercato e, quindi, di far saltare il Banco. Tenendo anche conto che il Gioco pubblico, analogamente a quanto avviene con quello dei tabacchi, è sottoposto a determinati vincoli volti a mantenere uno specifico equilibrio che consenta di mantenere competitiva l'offerta di Stato rispetto a quella illecita, evitando così quelle che vengono considerate inevitabili ricadute nell'illegalità. Conoscendo (anche qui, come si dovrebbe) la forte domanda di gioco tra gli italiani e dell'altrettanto forte offerta di gioco illecito negli anni precedenti alla legalizzazione eseguita dal Legislatore nazionale, che ha portato alla nascita di questa industria: che è compito dello Stato tutelare, al pari delle altre, e mantenere competitiva.
Per questo stupisce – o, almeno, dovrebbe farlo – la ripetuta e incalzante richiesta di ulteriori proventi ricavati dal gioco da destinare al mondo del calcio e dello sport più in generale. Come quella rilanciata nelle scorse ore da più parti in occasione della discussione parlamentare della riforma dello sport. Una proposta che ben conosciamo e che rimbalza di provvedimento in provvedimento ormai da anni, nel tentativo di vederla prima o poi andare in poto. Intendiamoci: non che lo sport italiano non abbia bisogno di ulteriori fondi, che sarebbero sicuramente denari ben spesi, osservando la situazione in cui versano soprattutto gli sport “minori”, come vengono considerate tutte le altre discipline diverse dal calcio. Ma guardando anche ciò che avviene nel calcio giovanile e dilettantistico: pertanto, ben venga il rifinanziamento dello sport e la riforma (anche) di questo settore. Solo che il gioco pubblico, stavolta, non può essere la fonte. E, soprattutto, non nei modi che vengono sistematicamente proposti. A partire dall'aumento dell'imposizione fiscale sulle scommesse sportive, che risultano già ampiamente spremute e ormai al limite della sostenibilità. Peggio ancora, però, è per certi versi l'ipotesi che sta prendendo piede nelle ultime ore, cioè quella dell'eliminazione del divieto di pubblicità imposto dal decreto Dignità, offrendo alle società di gioco la possibilità di tornare a investire su team sportivi e negli stadi o palazzetti. Sia chiaro: come abbiamo sempre scritto e ribadito su queste pagine, il divieto di pubblicità del gioco rappresenta un provvedimento assurdo, sbagliato e altamente deleterio, perché in grado di rendere irriconoscibile il gioco legale da quello illegale, oltre a creare pesanti squilibri sul mercato in termini di concorrenza e competitività. E a compromettere, peraltro, anche il mondo dello sport, come abbiamo già spiegato. Quindi il superamento del decreto Dignità è un qualcosa non solo di sensato e legittimo, ma addirittura è doveroso da parte del Legislatore, per ripristinare una situazione di equilibrio, nonché di tutela di alcuni principi costituzionali. Ma ciò non significa necessariamente tornare alla situazione di partenza, perchè questo sì che sarebbe un errore, e pure grave. Come abbiamo sempre sostenuto, con altrettanta onestà intellettuale e un pizzico di lungimiranza, in effetti, pur essendo figlio di un'evidente ideologia proibizionista e di una logica punitiva da parte dell'allora governo Conte 1, il decreto Dignità trovo comunque terreno fertile nel Parlamento dell'epoca anche perché era evidente a tutti l'eccesso di pubblicità e promozione del gioco d'azzardo che esisteva in quel periodo. Oltre alla bassa qualità di alcune della campagne di promozione delle società di betting, che finivano quasi con l'infastidire il pubblico che seguiva i vari sport. Ma proprio per questo, prendendo spunto dagli errori commessi nel passato, sia da parte dell'industria che del Legislatore, è opportuno rividere le regole della pubblicità del gioco con vincita in denaro in maniera completa, articolata e ragionata, e non in modo parziale e frammentario, per mettere una toppa su un altro settore, come si vorrebbe fare oggi.
Ma la proposta di un'ulteriore destinazione dei proventi delle scommesse allo sport è politicamente sbagliata anche nel metodo e non solo nel merito, di cui abbiamo appena discusso: sì, perché ciò che dovrebbe balzare subito agli occhi dei parlamentari è il fatto che è attualmente in corso una riforma generale (peraltro duplice) del gioco pubblico, all'interno della quale può e deve essere trattato anche il tema della pubblicità, in maniera completa e puntuale, come merita. Ed è sempre in questa sede che si potrebbe (dovrebbe?) valutare anche l'ipotesi di nuovi regimi di prelievo o tassazione che possano consentire di ricavare nuovi margini da destinare altrove. Come per esempio pensando a una tassazione di scopo, che è peraltro uno dei temi che si sta discutendo sul tavolo di trattativa con le Regioni sia pure per altre destinazioni: ma il principio potrebbe essere esteso e replicato in altri modi e canali, prendendo anche spunto dal meccanismo britannico delle “good causes”, che è riuscito fino in fondo nei suoi vari obiettivi (in Regno Unito), tra i quali c'è anche e soprattutto quello del finanziamento allo sport. Ma si pensi anche alla riforma della tassazione chiesta (da anni) dal comparto degli apparecchi dell'intrattenimento che propone una tassazione sul margine (come avviene in tutti gli altri paesi europei) che permetterebbe – come dimostrato – di ricavare anche maggiori proventi per lo Stato, senza aumentare la spesa dei cittadini.
Insomma, ben vengano le riforme, dello sport, del gioco e di ogni settore: purché si applichi il buon senso e si evitino le scorciatoie, come è sempre accaduto finora, con le conseguenze che tutti conosciamo.